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I quattro passi, dare un nome e riconoscere la violenza: pratica la libertà e accetta la fatica

di Valentina Gambino

Pubblicato il 2024-02-28

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. Nessuna donna di fronte a una violenza direbbe che a lei no, non succederebbe mai. Perché tutte abbiamo avuto paura. Viaggiare sola mi ha fatto riappropriare di tempi e spazi solo miei. …

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Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

Nessuna donna di fronte a una violenza direbbe che a lei no, non succederebbe mai. Perché tutte abbiamo avuto paura. Viaggiare sola mi ha fatto riappropriare di tempi e spazi solo miei. E mi ha insegnato a superare la paura.

Il primo passo è stato dare un nome alla violenza. Nominare le cose significa avventurarsi a scoprirle. E io non avevo nomi. Non avevo termini per orientarmi nel disagio che vivevo. Nessuno mi aveva parlato di tone policing, di male gaze, di mansplaining.

Ero sbagliata, su questo non c’erano dubbi. Ero venuta al mondo con un difetto di fabbrica. Non sapevo che le qualità tanto apprezzate negli uomini sono detestabili nelle donne. L’ambizione si trasforma in egoismo. La consapevolezza in arroganza. Se dovessi racchiudere cosa significhi essere donna in una parola, sarebbe fatica.

Enorme, colossale, sconfinata fatica. Un’onda anomala che sommerge il mio corpo. Le àncore di salvataggio le ho trovate nel femminismo: la mia casa, il porto sicuro dove rifugiarmi per prendere le distanze da un mondo a misura di maschio.

Il secondo passo è stato riconoscere la violenza. Il cibo che mi nutre è avvelenato dal patriarcato, l’aria che respiro è intrisa di mascolinità tossica, la misogina mi scorre addosso come una pioggia torrenziale. Sono nata e cresciuta in Sicilia dove lo spazio è degli uomini. Loro dettano legge. Ma ci illudono di contare qualcosa per addomesticarci. Ed eccoci fiere e compiaciute regine della casa. Lì comandiamo noi, le femmine.

Realizzate nella missione di costruire famiglie di cui portiamo il peso (gli uomini al massimo aiutano!), di mettere al mondo figli e figlie per cui sacrifichiamo carriere e identità. Nessuno ci insegna l’ambizione, la determinazione, l’ostinazione. Nessuno ci insegna a non cedere nemmeno un centimetro dello spazio che ci siamo guadagnate con lo studio o il lavoro. La nostra emancipazione deve sempre arretrare di fronte alle esigenze dei maschi e della famiglia. Il nostro regno si estende dal ripostiglio alla cucina passando per le camere da letto che ci tocca tenere in ordine. Gran bella consolazione!

Non credo nel matrimonio borghese, nella famiglia nucleare e nella gioia della maternità frutto di un amore romantico. Mi sembrano specchietti per le allodole. Ho creduto al principe azzurro, attratta dal cavallo e dai vestiti alla moda. Ho provato a rimpicciolirmi all’interno di relazioni squilibrate e disfunzionali.

Desideravo essere come le altre. E invece rimanevo l’unica che non riusciva mai a tenersi un uomo. Col mio carattere, non mi avrebbe voluta mai nessuno. Sarei rimasta sola, spaiata. Poverina. Me ne sarei pentita quando sarebbe stato troppo tardi. Ecco la fatica: ne ho sopportata moltissima per non cedere alle aspettative e ai desideri imposti. Per capire chi fossi veramente. Col femminismo ho trovato una bussola per orientarmi.

Il terzo passo è stato praticare la libertà. Ho iniziato a viaggiare da sola per caso. Ci ho messo dieci anni a comprendere il potere trasformativo del viaggio. L’ho capito quando ho scoperto le parole, i libri, i saggi. Non stavo solo camminando o prendendo un aereo, mi stavo

riappropriando di uno spazio e di un tempo miei. Il senso del mio viaggiare è lontano dal concetto di vacanza. Somiglia più alla meditazione. È un’immersione nei luoghi che visito e un’esplorazione dei miei fondali. È uno strumento per superare la paura. Dove sono cresciuta le donne non viaggiano sole. Ancora oggi, siamo in pochissime a farlo. Gli uomini, sì. Per lavoro o per svago. Le donne aspettano o accompagnano. È un luogo ostile, il mondo. Meglio evitare pericoli, meglio restare a casa.

Il quarto passo è stato accettare la fatica. Abbracciare la solitudine, convivere con il dolore che comporta percorrere un sentiero non battuto, spostare le pietre a mani nude per tracciare la strada e sentirmi dire che esagero. Un vizio tutto femminile.

Noi donne esageriamo sempre. Abbiamo tutto, ormai comandiamo noi. Poveri questi uomini che non sono più liberi di molestarci in palestra o sul posto di lavoro, che non possono fischiare per strada come fossero al pascolo, che non possono pedinarci e controllarci i telefoni per dimostrare quanto tengano a noi. Poveri questi uomini stanchi di pagare per cose che loro non farebbero mai e fingono di non capire i privilegi di cui godono immeritatamente. Poveri questi uomini che non ci torcerebbero un capello, ma non tollerano più noi donne frignone che ci crogioliamo nel vittimismo.

Poveri questi uomini che sanno solo prendere le distanze e assolversi perché “io no, io non lo farei mai”. Senza capire che la differenza è tutta qui. Mentre loro allontanano ogni responsabilità, noi moriamo.

Fisicamente o emotivamente. Di botto o gradualmente. Nessuna donna di fronte a una violenza direbbe che a lei no, non succederebbe mai. Perché tutte abbiamo avuto paura. Tutte abbiamo rinunciato a un evento per non tornare tardi da sole, tutte abbiamo avuto uomini manipolatori e violenti, tutte ci siamo rimpicciolite fin quasi a scomparire, tutte ci siamo svilite per risultare gradevoli. Ma ora non abbiamo più voglia di farlo e non vogliamo essere ammazzate per questo.

Maria Grazia Patania

#Unite è una campagna di scrittura a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. QUI la pagina Instagram con tutti i contributi.

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