logo

“Volevo essere un maschio”: la storia di Edith e il desiderio di gridare che essere donna è un privilegio

di Redazione BlogTivvu.com

Pubblicato il 2024-02-19

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. Sono l’unica femmina di quattro figli. Da piccola, mi ricordo, volevo essere maschio. Non nel vero senso della parola, semplicemente – già all’epoca – avevo colto la sottile sfumatura che passa tra …

article-post

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

Sono l’unica femmina di quattro figli. Da piccola, mi ricordo, volevo essere maschio. Non nel vero senso della parola, semplicemente già all’epoca avevo colto la sottile sfumatura che passa tra l’essere donna e l’essere uomo. Notavo, mio malgrado, che i maschi avessero più possibilità. Potevano essere scapicollati, scalmanati, fare branco, essere eccentrici, rispetto a una femmina che, invece, doveva essere posata, senza uscire troppo dagli schemi. Loro potevano essere sé stessi, mentre la femmina doveva capire bene come comportarsi, per non essere additata come la strana. Se ripenso alla parola che ho sentito più spesso nei miei confronti, durante l’infanzia, è proprio “strana”. Vestivo da maschio, ero spericolata come un maschio, ero anche disordinata come un maschio. Non adoravo fare le faccende, essere pronta a immolarmi a “donnetta di casa”, come voleva mio padre. Al contrario, volevo essere libera di fare tutto, di atteggiarmi come volevo e, forse per la mia spiccata sensibilità, mi accorgevo che questo non era possibile. Allora, volevo essere maschio per essere me stessa, per volare sulle ali della fantasia o sfrecciare con la bicicletta tra i campi di carciofi.

Però, al tempo stesso, ero stanca di sentirmi sempre fuori luogo, sempre un pesce fuor d’acqua. Vedevo le mie amiche altezzose, con gli abiti firmati, sempre alla moda. E mentre crescevo, mi chiedevo perché io non fossi come loro. A volte, cercavo d’imitarle e la disperazione nel fatto che non ci riuscissi mi faceva soffrire. Mi ripetevo che, forse, era perché fossi cresciuta con tutti maschi intorno. Che il mio modo di essere fosse il riflesso di ciò che avevo vissuto. Negli anni dell’adolescenza, sono stata molto irrequieta. E mentre la mia irrequietezza cresceva, cresceva anche la mia femminilità; anche se mi sembrava che non riuscissi mai a essere al passo con le altre. C’era sempre qualcosa che stonava, qualcosa che non andasse bene. Allora, sentivo crescere, dentro di me, una sensazione di ribellione sottesa, confusa e iniziai a mettere da parte la mia personalità per uniformarmi. Facevo quello che facevano le mie amiche, mi atteggiavo come loro, ma ero comunque sempre troppo eccentrica, troppo sopra le righe. Se ripenso alla parola che mi sono detta più spesso, durante gli anni dell’adolescenza, è “troppo”. Troppo felice, troppo triste, troppo arrabbiata, troppo divertente, troppo scalmanata, troppo agitata, troppo affamata. Troppo, troppo, troppo.

Non riuscivo a farmi piacere dai maschi. Alcuni s’interessavano, ma era un interesse fittizio, falso, e tutto ciò contribuiva a farmi credere che fossi davvero sbagliata. Perché nessuno riusciva ad amarmi? Perché le persone volevano avermi col corpo, ma non con la mente? Cosa c’era di sbagliato in me?

All’età di ventun anni, poi, mi innamorai di un ragazzo. Sembrava perfetto. Sembrava ciò di cui avessi bisogno e che non ero riuscita a trovare negli altri. Sembrava amarmi e io, affamata d’amore, mi ci fiondai. Mi immolai, per lui. Ma, come spesso succede, non era che una maschera, la sua. Perché il narcisista è bravo a nascondersi, a celare la sua vera identità. All’inizio, non mi pesavano nemmeno le sue continue richieste: di truccarmi per non sfigurare di fronte ai suoi amici, di vestirmi in un certo modo, di essere sempre disponibile per ogni cosa, mentre per me lui c’era raramente. Mi diceva che non ero abbastanza, che non ero capace di fare niente, di portare a termine qualcosa, di capire. Mi diceva che la mia vita era inutile e mi diceva anche che l’amore è soffrire e io gli credetti, perché quello era l’unico amore che avessi mai sperimentato. Perciò sopportavo i suoi continui tradimenti, il suo farmi ghosting, il silenzio punitivo. Sopportavo di essere la sua schiava sentimentale e accettavo persino le catene invisibili con le quali mi aveva legata a lui. Accettai tutto questo perché mi convinsi che forse aveva capito meglio di me che nullità fossi e quindi non potevo permettermi di scappare da colui che, come una droga, mi dava quel tanto che bastava a farmi sentire amata. Passarono sei anni, in cui mi vidi scomparire piano piano, in cui mi vidi sfiorire sempre di più. In cui Edith, per come l’avevo sempre conosciuta, non c’era più. C’era soltanto il riflesso di quel ragazzo, come lui mi voleva, e sempre un passo indietro. Un inferno così efferato da lasciare strascichi ancora oggi, che sono passati otto anni.

Lui è stato una delle cause che mi hanno portato alla depressione, con la quale convivo dal 2015.

Eppure, non lo condanno. Grazie a un percorso di psicoterapia, durante il quale sono uscite tante cose di me e del mio passato, mi sono detta che lui è stato un mezzo per riuscire a capire cosa c’era davvero di sbagliato in me, ed era solo una cosa: il fatto che non mi accettassi. Io non avevo mai accettato il mio modo di essere, di sentire, di vivere, di piacere, di amare, di soffrire e lui non aveva fatto altro che alimentare questa mia insicurezza, a renderla più vera. Perché il narcisista è bravo a capire i punti deboli e a rivoltarli contro la propria vittima. Per cui, ero carne da macello, martoriata dai miei dubbi, dai miei cavilli mentali, dai miei stessi demoni. Ma ora so che non aveva ragione lui. Mi sono resa conto che quella bambina, che voleva essere un maschio, c’era ancora, da qualche parte; quella che non si era mai sentita accettata da nessuno. Però, ho anche capito che rinnegare il proprio essere porta soltanto alla sofferenza e così ho accettato la mia “stranezza”, la mia diversità. Ho accettato il fatto che probabilmente non sarò mai una di quelle ragazze posate e bellissime che si vedono alla stazione, mentre aspettano il treno, o sedute a un tavolino di un bar mentre bevono il caffè, e tutto ciò non mi rende meno meritevole di amore. Ho quindi capito anche un’altra cosa: non c’è un solo modo di essere donna. Io sono donna quanto loro.

E nascere donna porta con sé inevitabilmente delle condizioni. Le donne hanno combattuto per anni diritti che l’uomo ha avuto da sempre. Può sembrare scontato da dire, e ripetitivo, eppure non lo è mai abbastanza. Hanno sopportato soprusi, sono state bruciate sul rogo perché accusate di essere streghe, imprigionate o uccise per aver tradito. Additate per un aborto o per il non volere figli. Oppure volerne troppi. Screditate come intellettualmente capaci di lavori d’ingegno e fisicamente preparate per gare sportive. Le donne sopportano ogni giorno la paura di uscire di casa, di vestirsi come vogliono, di fare sesso. Di camminare la notte, di andare in discoteca, di sdraiarsi in un prato o viaggiare da sole.

Ma sono anche quelle che sopportano il dolore più potente che si possa provare: partorire. Sono quelle che riescono a fare più cose contemporaneamente. Sono quelle capaci di amare fino a morire e di morire per amore di qualcosa o di qualcuno. Sono l’origine della vita. E io lo voglio gridare a quella bambina che non voleva essere femmina. Le voglio gridare che essere donna è un privilegio, perché la donna è potente, la donna ha un’energia diversa, capace di cambiare il mondo. Ed è grazie alle lotte, silenziose e non, di tante come me che posso ogni giorno decidere chi essere o diventare e quindi anche di infrangere gli schemi che mi vogliono incatenata a un ruolo, rompere le barriere del perbenismo e del patriarcato, per trasmettere il mio messaggio a tutti: la donna è una, nessuna e centomila.

E io sono ogni cosa, posso essere tutto. Posso ancora sfrecciare in bicicletta tra i campi di carciofi, sentirmi libera di vestirmi in tuta, di non truccarmi, di tagliarmi i capelli, di stappare un lavandino, di cantare, di ballare, di scrivere e stare sopra un palco. Posso decidere di essere me stessa, a prescindere da ciò che pensano gli altri. Perché la lotta è anche nelle piccole cose come questa di scrivere della mia esperienza e io, di lotte, ne voglio intraprendere tante. #Unite #RompiamoilSilenzio

di Edith Maria Frattesi

#Unite è una campagna di scrittura a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. QUI la pagina Instagram con tutti i contributi.

Potrebbe interessarti anche