logo

Il pranzo della domenica: “I frutti mostruosi del patriarcato”

di Valentina Gambino

Pubblicato il 2024-02-21

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. Una domenica, sono stata invitata -come spesso accade- al pranzo della domenica a casa di una cara amica.  Mi sono ritrovata a raccontare uno spiacevole fatto che ci era accaduto alcuni giorni …

article-post

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

Una domenica, sono stata invitata -come spesso accade- al pranzo della domenica a casa di una cara amica. 

Mi sono ritrovata a raccontare uno spiacevole fatto che ci era accaduto alcuni giorni prima, per strada: mentre raggiungevamo un negozio, due tizi ci avevano ricoperto di commenti sgradevoli, di fischi, risatine sprezzanti. 

Ci tenevamo a raccontare il disgusto e il disagio di momenti come questi, che purtroppo accadono troppo spesso. 

La sua famiglia è formata da sei persone e tra queste, ci sono almeno tre generazioni di donne – considerando che la donna più anziana aveva 85 anni, e quella più giovane, la nipote, 17-.

Eravamo lì, tra una portata di tagliatelle al sugo e una di pollo arrosto con patate, a commentare il fattaccio. 

Inizialmente, rimasi incredula nel sentire che la madre, commentava gli accaduti come se fossero un’ esagerazione, continuava a dire che se un uomo per strada fischia ad una donna, lo fa per ammirazione, per complimentarsi, e che di fatto, dovremmo sentirci onorate e apprezzate. 

Il dialogo è andato avanti così per un po’, poi il commento di uno dei fratelli, un ragazzo giovane che affermava di avvertire una sorta di pesantezza quando sentiva parlare di catcalling o ancor più di patriarcato, queste parole sono un prurito fastidioso che, secondo lui, conferiscono una inutile importanza a dei comportamenti, che sono per lo più goliardici e messi in atto da persone ignoranti che “vogliono solo ridere, scherzare, giocare”.

Inizialmente lo ascolto. Rifletto. Colta da un disagio improvviso mi sbottono i pantaloni perché sento una sensazione di pienezza, di fastidio allo stomaco. 

Il dialogo prende questa piega e la nonna, masticava in silenzio il pane, strappando tanto in tanto un po’ di mollica. La cugina diciassettenne invece iniziava a storcere il naso, come se i discorsi fatti fino ad ora, iniziassero ad avere un odore sgradevole.

Poi ad un certo punto, la madre con mano ferma, chirurgica ha iniziato a svuotare i piatti dai resti del primo e così, improvvisamente inizia a raccontare un ricordo. 

Sembra aver cambiato tono di voce, come a far emergere qualcosa di antico, scomodo: 

Da ragazza, quando scendevo dall’autobus, mi ricordo che i 300 metri che dovevo fare per raggiungere casa, li facevo di corsa. Mi ricordo che camminavo veloce, con i pugni stretti e lo sguardo basso. Avevo paura.

Io non avevo capito quando era stato il preciso momento in cui si era cambiata rotta nella discussione, ma le sue parole improvvise vennero accolte dal silenzio. 

Nessuno rispose, forse perché nessuno si aspettava un commento così. Per qualche minuto si sentì solo il rumore delle forchette che affondava nelle cosce di pollo e nelle patate, sembravano trascorsi secoli invece che secondi ed ecco che la nonna, inaspettatamente rompe il silenzio, chiedendo a gran voce al nipote un sorso di vino rosso.

Ricordo che il nipote le chiese: “da mischiare con l’acqua?”. E la sua risposta algida, potente: “No, oggi me lo bevo così”

E se fino a quel momento se ne era stata lì, in disparte, ad ascoltarci passivamente, la sua bocca iniziò a tirar fuori un racconto oscuro che pian piano prese forma: 

Da ragazzina abitavamo in una palazzina -ci si conosceva tutti- mia madre mandava spesso me e mio fratello in cantina a prendere alcune cose che servivano per la cena; per raggiungere la cantina dovevamo scendere le scale, ricordo che erano buie, e quando andava mio fratello , lui tornava in pochi minuti; mentre quando toccava a me, ci impiegavo sempre tanto tempo. 

Al piano di sotto c’era il portiere, il signor Duccio, lui mi accendeva la luce, amava i miei capelli e spesso mi accarezzava le trecce. A volte mi chiedeva se potevo sedermi sulle sue ginocchia, io lo reputavo gentile. 

Un giorno lo raccontai a mia madre, che decise che da quel giorno non sarei più potuta scendere in cantina da sola, mai più.

A tavola l’aria era tesa, si era scoperchiato il vaso di Pandora. Poi finalmente è arrivato il momento del dolce: una perfetta crostata alla crema. 

La madre tagliò le fette e le mise delicatamente nei piatti, ma stavolta ce li passò prima a noi. Ad ogni boccone ricordo di aver sentito la forza e il sapore dolce dell’unione, della condivisione. 

Ci siam sentite unite, di generazione in generazione.

Mentre il tempo passa, la violenza sulle donne resta. Non è un fatto eccezionale, è ancora parte integrante della nostra realtà culturale, politica e sociale. 

La strada verso l’uguaglianza è ancora così lontana, lunga e tortuosa ed è evidente che alla base dell’iceberg della violenza di genere c’è una cultura che valida e normalizza oppure minimizza questo tipo di violenza, nutrendo così sempre di più questo mostro.

Non basta parlarne, non basta ascoltare storie, non basta vedere tutti i giorni i frutti mostruosi del patriarcato

Ma di sicuro farlo, ci aiuta a scoprire che unite siamo forti, ci permette di districare i nodi che intrecciano la fitta rete di questa patologica realtà, che troppo spesso è ragnatela, trappola, di cui tutte siamo vittime.

Eleonora Casali

#Unite è una campagna di scrittura a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. QUI la pagina Instagram con tutti i contributi.

Potrebbe interessarti anche